
Di Anna Scapin
Quando si parla di imprenditoria femminile, il dibattito si concentra quasi sempre su due elementi: quote rosa e accesso al credito. Strumenti utili, ma non risolutivi.
Se usati da soli, rischiano di essere solo una “vernice rosa” su un sistema ancora sbilanciato e ostile alle donne.

Nella narrazione sociale dominante, la donna è vista prima come madre, poi — forse — come professionista.
Se lavora troppo, è “una madre sbagliata”.
Se privilegia la famiglia, è “una professionista poco affidabile”.
Questo doppio standard penalizza l’impresa femminile, valutata con parametri distorti:
Il business va bene, ma “riesci anche a gestire i figli?”
Dati in Italia:
Negli ultimi anni, grazie al PNRR, sono nati bandi e fondi come Fondo Impresa Donna, incentivi regionali e misure di sostegno.
Tuttavia, il problema non è solo l’assenza di capitali, ma di un ecosistema equo:
Finché si finanzieranno donne prive di rete, supporto e tempo, il rischio sarà quello di progetti a metà.
A livello europeo, la Commissione Europea promuove il gender mainstreaming, ovvero l’integrazione della parità di genere in tutte le politiche pubbliche.
Il gender budgeting riorienta la spesa pubblica in base all’impatto sulla parità.
Esempi virtuosi:

Dati italiani:
Risultato: più imprese femminili nei settori a bassa intensità di capitale (commercio, cura, microservizi) e poche in tecnologia, innovazione ed export.
Più che quote rosa, serve riconoscere lo spazio già conquistato dalle donne e rimuovere le barriere invisibili che lo limitano.
Investire in:






